Quella
mattina in tanti erano saliti su alla Portella
delle Ginestre, un
passo al margine
di un altopiano montuoso, sul versante orientale del monte Pizzuta.
Era
un giovedi e si saliva alla portella in quel luogo che,
nel 1893, Nicola Barbato aveva
scelto per festeggiare la festa del Lavoro e dei Lavoratori
; il
primo Maggio.
Più
di 3000 persone, contadini e intere famiglie. Chi
a piedi e chi a cavallo salivano su da Piana degli
Albanesi
e dal versante opposto,
San
Giuseppe Jato e San
Cipirrello.
Si
festeggiavano i primi successi della
lotta
della classe operaia e la vittoria elettorale della sinistra alle
elezioni regionali del 20 di Aprile.
Da
Piana erano partiti a piedi anche due fratelli di mio padre: erano
appena tre chilometri da casa al passo.
Lui
si era attardato. Era un giorno di festa e nel pieno dei suoi
diciannove
anni voleva
rendersi presentabile dopo aver lavorato nei campi e governato le
mucche.
Dopo essersi rasato per bene il viso e indossato la sua camicia
migliore si incamminò anche lui verso Portella.
Passata
contrada Gamillo e oramai vicino al passo senti dei botti, come dei
mortaretti. Pensava a qualche fuoco d’artificio per la festa. Dopo
una curva incontro gente che correva in direzione di Piana.
Scappavano
impauriti, alcuni con il volto coperto di sangue - Hanno sparato,
hanno sparato – urlavano.
Pensò
che su c’erano i suoi fratelli. Corse, corse più che poteva. Trovò
il primo fratello
e insieme cercarono l’altro mio zio che era più vicino al luogo
della festa. Fortunatamente era inciampato ed era cascato in un
fosso,
riparato dalla carcassa di un mulo abbattuto.
Gli
esponenti
della grande proprietà terriera, della mafia e dei partiti
conservatori locali, preoccupati dall’avanzata del Blocco Popolare
avevano armato la mano di Salvatore Giuliano.
Avevano
sparato su gente inerme andata li per festeggiare.
Un
giorno di festa era diventata la
prima strage della neonata Repubblica Italiana.
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